Tra pochi giorni, il 5 agosto 2012, il nuovo rover della NASA Curiosity
dovrebbe atterrare sul Pianeta Rosso nel cratere Gale, nei pressi di una
montagna chiamata "Mount Sharp". La missione (qui il bel sito ufficiale), nota con il
nome di "Mars Science Laboratory " è sicuramente la più complessa e
ambiziosa mai tentata nel campo dell'esplorazione robotica dello spazio. Le
operazioni del rover dovrebbero durare almeno un anno marziano, cioè circa 2
anni terrestri e lo scopo sarà quello di investigare sulla passata, e presente,
capacità di Marte di sostenere la vita. Già la tecnica di atterraggio
costituirà una novità visto che, dopo l'ingresso in atmosfera e una discesa
rallentata da paracadute, il rover marziano verrà calato sul terreno tramite
dei cavi da una piattaforma volante chiamata "skycrane"
(letteralmente: "gru del cielo") che rimarrà sospesa in aria grazie a
dei razzi per il tempo necessario alla deposizione sul suolo marziano del
laboratorio scientifico mobile. Questo nuovo metodo di atterraggio, che
sostituisce il più classico uso di air-bag per attutire l'impatto col terreno,
ha permesso di ampliare la gamma di possibili siti di atterraggio, tanto da
includere alcune delle regioni marziane più interessanti dal punto di vista
scientifico come il cratere Gale. Il rover stesso è da primato: essendo il più
grande (ha le dimensioni di una piccola automobile) e sofisticato mai inviato
sul Pianeta Rosso, Curiosity sarà in grado di effettuare complesse
analisi geochimiche del suolo marziano che permetteranno di analizzare con un
dettaglio senza precedenti la composizione chimica di suolo, rocce e atmosfera
alla ricerca di indizi sulla passata, e eventualmente presente, abitabilità
della regione. Tra gli avanzatissimi strumenti presenti sul rover figurano uno
spettrometro per neutroni che andrà alla ricerca di acqua e particolari rocce
nei suoli sotto il veicolo, un sensore di radiazioni che monitorerà raggi
cosmici e radiazione solare, uno spettrometro a raggi x montato su un braccio
mobile che determinerà in situ la composizione delle rocce, una stazione
meteorologica, delle videocamere a colori ad altissima definizione, un laser
per perforare le rocce fino a sette metri di distanza. Curiosity è anche
dotato di un gascromatografo e di uno spettrometro di massa pensati soprattutto
per individuare carbonio organico nei campioni di rocce e in atmosfera oltre
che di un apparato per analisi mineralogiche mediante diffrazione dei raggi x.
Il luogo d'atterraggio è stato scelto dopo una accurata selezione a partire da
una lista di più di 50 possibili siti candidati. Il cratere Gale, il luogo
scelto come più adatto per la missione, al centro del quale si trova il monte
Sharp, è situato nei pressi dell'equatore marziano ed ha un diametro di circa
150 km. All'interno di questo antico cratere da impatto l'erosione del vento,
nel corso degli eoni ha esposto strati rocciosi un tempo sepolti e quelli che
sembrano essere antichi depositi fluviali.
Lo studio del monte Sharp potrebbe essere una grande occasione per
comprendere il passato di Marte. I ricercatori pensano infatti che il
monte Sharp, con la sua evidente struttura a strati che si innalza per oltre 5
km di altezza, sia stato creato dalla stratificazione di depositi in epoche
successive all’evento di impatto che deve aver creato il cratere Gale, oltre 3
miliardi di anni fa. Negli strati più profondi, le missioni marziane che in
passato si sono trovate a studiare il pianeta dall’orbita hanno identificato
minerali che possono essersi formati in presenza di acqua. La ricerca sul
campo permetterà, nei prossimi mesi, di studiare le condizioni climatiche al
momento in cui i diversi strati si sono depositati. Per il team della NASA sarà
come leggere le pagine di un libro sulla storia geologica di Marte.
Voglio concludere questo post lasciandovi alla visione di un breve video
realizzato dal Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA in cui alcuni
scienziati responsabili della missione spiegano quali siano, e quali non
siano, gli obbiettivi di Curiosity.
Lo studio
pubblicato cinque giorni fa sulle pagine della prestigiosa rivista Cell da
parte di un team di ricercatori dell'università di Stanford segna davvero un
momento storico per la biologia e la scienza più in generale: l'alba della
"biologia cellulare computazionale". La portata di questo annuncio è
analoga a quella di quando, nel 2010, Craig Venter stupì il mondo annunciando
di aver creato la prima forma di vita artificiale.
L'impresa compiuta dal gruppo di bioingegneri, bioinformatici e
biofisici autori dell'articolo è stata usare i dati contenuti in più di 900
articoli scientifici per produrre il primo modello computazionale completo del
ciclo vitale di un patogeno umano, il Mycoplasma genitalium, simulando
tutte le componenti cellulari e le loro interazioni in grande dettaglio.
La scelta di usare il Mycoplasma genitalium come organismo modello
per la creazione del primo microorganismo virtuale si deve al fatto che si
tratta del batterio più piccolo capace di vita autonoma, dotato di appena 525
geni (per fare un confronto E. coli, il più famoso batterio da
laboratorio ne ha 4288). Questo ovviamente non solo rende più semplice la
sua modellizzazione, ma abbassa anche la capacità di calcolo dei computer
richiesti per far "vivere" in silico in batterio virtuale
(cioè per "far girare" la simulazione). Ciò nonostante simulare tutti
i processi molecolari che avvengono nel Mycoplasma genitalium rimane una
sfida computazionale notevole. Per simulare una singola divisione cellulare, i
128 computer usati nello studio, dotati di 28 algoritmi connessi tra loro
(ognuno in grado di riprodurre un singolo processo biologico), hanno impiegato
circa 10 ore durante le quali è stato prodotto più di mezzo gigabyte
di dati.
Il successo raggiunto dai ricercatori guidati dal professore di
bioingegneria Markus Covert: simulare
un intero organismo al computer, rappresenta da sempre una sorta di "Santo
Graal" della biologia computazionale. Infatti un modello computazionale
come quello realizzato dagli scienziati di Stanford non solo permetterà di
esaminare nel dettaglio questioni di biologia fondamentale che non sarebbe
facile affrontare altrimenti, ma rappresenta anche una pietra miliare verso
l'uso del "computer-aided design" (CAD) in bioingegneria e medicina.
Il CAD ha rivoluzionato settori come l'ingegneria aeronautica e quella civile;
la sua applicazione nel campo della biologia sintetica o del drug design
permetterebbe di esprimere tutto l'enorme potenziale della medicina
personalizzata (qui,
si era già parlato di un progetto europeo in proposito), e darebbe una
gigantesca spinta all'industria biotecnologica. Tuttavia sarà probabilmente
necessario aspettare ancora qualche anno prima che una tecnologia come il CAD
biologico si sviluppi e si diffonda; la strada da fare è ancora lunga. Ora
infatti l'obbiettivo è quello di simulare cellule più complesse come quelle
umane e, eventualmente, passare a simulare piccoli organismi pluricellulari o
interazioni tra gruppi di cellule nei tessuti. Jonathan Karr, dottorando in
biofisica a Stanford e primo coautore dello studio ha dichiarato:
"L'obbiettivo non è solo quello di comprendere meglio Mycoplasma
genitalium, ma la biologia in generale"e ha aggiunto
"questo potrebbe essere l'inizio di una sorta di nuovo Progetto Genoma
Umano: sarà necessario uno sforzo collettivo di tutta la comunità scientifica
per arrivare a realizzare un modello computazionale di una cellula
umana".
In conclusione vi lascio alla visione di una breve intervista (in inglese) dell'anno
scorso a Markus Covert. Nel video il bioingegnere racconta la sua esperienza a
Stanford, la sua passione per la bioingegneria e le motivazioni del suo
ambizioso progetto che, proprio in questi giorni, è stato coronato dal
successo.
I nostri cervelli sono costituiti da un denso "groviglio" di cellule nervose connesse tra loro tramite le sinapsi; la chiave per comprendere a fondo il funzionamento di questo straordinario organo che ci rende unici sta proprio nel mappare tutte queste connessioni. E' questa la immensa sfida della connettomica di cui ho già parlato spesso in questo blog (qui per la prima volta). Oggi voglio mostrarvi un interessante video, realizzato dalla prestigiosa rivista Nature, in cui si parla di come, per la prima volta, scienziati dell'università di Harvard siano riusciti, non solo a ricostruire il "cablaggio" di una piccola parte del cervello di topo, ma soprattutto a correlarlo alla funzione delle singole cellule (confrontandolo con dati elettrofisiologici precedentemente raccolti in vivo).
Ogni giorno della nostra vita i nostri occhi e le nostre orecchie sono costantemente "bombardati" da stimoli sensoriali di tutti i tipi. Capire esattamente in che modo il nostro cervello trasformi tutto questo "diluvio" di rumori, suoni, forme e colori in una immagine rappresentativa del mondo che ci circonda è sicuramente una delle sfide più affascinanti delle neuroscienze. Se seguite questo blog da un po' di tempo allora forse ricorderete dei notevolissimi risultati raggiunti in questo campo lo scorso ottobre da un gruppo di scienziati dell'università di Berkley. Questi, a partire da scansioni fMRI (risonanza magnetica funzionale) del cervello di pazienti intenti a guardare dei video, erano riusciti a ricostruire le scene che i soggetti stavano osservando (qui il post in proposito).
Il documentario che vi voglio proporre con questo post è il quarto episodio della serie "Science Bytes" (di cui si è già parlato in questo post) e racconta come, nei mesi scorsi, un altro gruppo di ricercatori di Berkley sia riuscito ad applicare la stessa tecnica per ricostruire i suoni uditi dai soggetti sperimentali (sia umani che animali) a partire da registrazioni elettroencefalografiche effettuate con microelettrodi. Simili tecnologie potrebbero in futuro cambiare la nostra vita e in particolare quella di quei pazienti che, pur non avendo modo di muoversi o di comunicare, rispondono agli stimoli esterni.
Come molto probabilmente vi sarà capitato di sentire (qui la
notizia), due giorni fa, il 4 luglio, i fisici del CERN di Ginevra hanno finalmente
dato l'annuncio che tutti, nella comunità scientifica della fisica delle
particelle, aspettavano da anni: LHC (l'enorme acceleratore di particelle del CERN) ha trovato una nuova particella che
potrebbe essere proprio il famigerato bosone
di Higgs. La conferma della scoperta della nuova particella è
arrivata dai ricercatori del l'LHC in una conferenza stampa, trasmessa
in diretta via Web e seguita in tutto il mondo. Citando le parole di
Fabiola Gianotti, "spokesperson" dell'esperimento Atlas:
"Abbiamo osservato nei nostri dati dei segni chiari della presenza di una
nuova particella, con un livello di incertezza di 5 sigma nella regione di
massa attorno ai 126 GeV".
Ma che cos'è questo bosone di Higgs?
L'Higgs è un bosone, cioè una particella, dotata di spin intero come il
fotone (lo spin è, in meccanica quantistica, una grandezza che in analogia con
il momento angolare in meccanica classica può essere immaginata come legata
alla rotazione di una particella intorno al proprio asse). Il bosone di Higgs è
una particella davvero fondamentale per il "funzionamento"
dell'universo essendo portatore di forza del campo di Higgs, che secondo la
teoria conferirebbe massa alle particelle.
Se non avessimo massa, o meglio, se non l'avessero i protoni i
neutroni e gli elettroni di cui sono composti gli atomi di cui noi stessi siamo fatti, saremmo solo particelle che
schizzano nel vuoto alla velocità della luce; nessun fenomeno chimico e, a maggior ragione
biologico, potrebbe mai verificarsi in un mondo così "instabile" e
privo di strutture organizzate. In un simile universo noi non esisteremmo e non potrebbe nemmeno esistere nulla di tutto ciò che conosciamo.
Per saperne di più su questa ormai famosissima particella e sugli eventi che
stanno scuotendo il mondo della fisica delle particelle in questi giorni vi
consiglio di tenere d'occhio il bellissimo blog "Borborigmi di un fisico renitente"
per notizie di prima mano dal CERN. Vi suggerisco anche la lettura del faq sul
bosone di Higgs realizzato dall'ufficio comunicazione dell'Infn (qui) e la visione delle relative infografiche (qui).
Prima di lasciarvi all'interessante documentario (qui sotto) nel quale verrete
condotti in un viaggio dietro le quinte di LHC,
ne approfitto per consigliarvi ancora una volta la lettura di "Odissea
nello zeptospazio". Questo bellissimo saggio di Francesco Giudice, fisico teorico
delle particelle proprio presso il CERN di Ginevra è una guida chiara e
comprensibile per apprezzare le scoperte scientifiche che stanno avendo luogo
presso l' LHC oltre che per conoscere le stupefacenti innovazioni tecnologiche che sono
state necessarie alla realizzazione del più grande esperimento scientifico di
sempre (qui
il link alla pagina del libro).